Amiche e amici del Capri Comics, fresco di prima visione de Il ragazzo e l’airone (in originale Kimi-tachi wa dō ikiru ka?, ovvero E voi come vivrete?) voglio ardentemente condividere con voi i miei pensieri sull’ultimo film d’animazione (ultimo cronologicamente e forse anche artisticamente) di Hayao Miyazaki, prodotto dallo Studio Ghibli.

Non proprio una recensione, ma più un insieme di considerazioni personali a caldo, frutto delle forti emozioni suscitatemi da un’opera estremamente densa e viscerale.

In questo flusso troverete quindi le mie interpretazioni personali, oltre che degli spoiler, per quanto si possa effettivamente parlare di spoiler per un film talmente complesso ed ermetico da necessitare verosimilmente più visioni per goderselo a pieno.

Nonostante il suo ermetismo, Il ragazzo e l’airone trasuda passione, calore e sforzo, che ho recepito a livello istintivo, prima ancora di cogliere i significati del film, molti dei quali ancora mi sfuggono e forse continueranno a sfuggirmi.

Ma va bene così.

Come iniziare?

Prima che sulla trama, vorrei riflettere sul titolo originale, che per me è già emblematico.

“E voi come vivrete?”

Tratto dall’omonimo romanzo di Genzaburō Yoshino del 1937 (al quale Miyazaki si ispira molto liberamente) questo titolo mi sembra quasi un’interlocuzione del regista con il suo pubblico e forse ancor di più con altri artisti. Un addio implicito, sottinteso nel contesto, e un quesito esplicito, curioso di capire come le persone agiranno di qui in avanti.

Un titolo secondo me emblematico, dicevo, perché già esemplificativo di quello che ritengo uno dei messaggi principali del film: imparare ad accettare la fine, in particolare la fine della vita, personale e artistica, propria e altrui.

Miyazaki allo stato puro

La trama del film segue Mahito Maki, un bambino che durante la guerra perde la madre Himi in un terribile incendio. In seguito, Mahito si trasferisce in campagna, dove il padre Shōichi ha intrapreso una relazione con la sorella della madre, Natsuko, mettendola anche incinta. Traumatizzato dal lutto e ostile nei confronti della zia-matrigna e del padre ignaro dei suoi sentimenti e concentrato solo sul lavoro, Mahito non può che essere incapace di ambientarsi nel nuovo contesto, con conseguenti liti e risse con i suoi coetanei. Il bambino si ferisce quindi con una pietra così da potersi confinare a letto e chiudersi in se stesso, finché un strano e apparentemente crudele airone mutaforma non lo attira in una torre abbandonata con la promessa sibillina che lì potrà rivedere la sua defunta madre e salvare sua zia, misteriosamente scomparsa. La torre si rivela essere una sorta di dimensione fantastica che permette di viaggiare attraverso il tempo, lo spazio e altri mondi, nonché dominata da una sorta di stregone-demiurgo, prozio del protagonista. Qui, Mahito si imbatterà in bizzarre creature e affronterà situazioni al limite dell’assurdo, senza mai scomporsi e senza mai arrendersi, fino all’incontro con la versione adolescente della madre e al salvataggio della zia imprigionata. Nel finale, il mondo fantastico implode per effetto dell’abdicazione del prozio e del conseguente rifiuto o incapacità altrui di tenere in piedi (letteralmente) tale fantasia in sua vece.

Il film si struttura apparentemente come la classica storia di formazione, in cui un bambino viaggia in un mondo magico e bizzarro, dove affronta i propri problemi e impara una lezione. Su questo scheletro archetipico, Miyazaki innesta una vera e propria interpretazione autobiografica, arricchita da una summa definitiva della propria opera in termini di tematiche, suggestioni e stile.

Ogni animazione ha un peso specifico, e ogni scena necessita di quella che l’ha preceduta e di quella che la segue, in un fluire ininterrotto di meraviglia espressiva e tecnica.

Una menzione speciale, per me, va alla sequenza iniziale, quando Mahito si affretta per raggiungere la madre intrappolata nell’incendio: il bagliore del fuoco, l’oscurità del fumo e la calca della gente si fondono tra loro e quasi “disfano” i disegni, diventando così una rappresentazione plastica del panico del ragazzino. Da brividi.

Il ciclo infinito: idee, persone, storie e personaggi

Parlando dei personaggi, vorrei partire dal prozio demiurgo che controlla il mondo della fantasia, che potrebbe rappresentare Miyazaki stesso, o per qualcuno Isao Takahata, co-fondatore dello Studio Ghibli, nonché amico e in parte mentore di Miyazaki. Il prozio viene infatti descritto come un uomo “impazzito” dopo aver letto troppi libri e poi divenuto ossessionato da una strana “torre” caduta dal cielo come un meteorite, che potrebbe rappresentare la fantasia o l’ambizione, che appunto irrompono improvvisamente e possono causare smania e isolamento.

È abbastanza significativo che all’ingresso della torre sia vergata la frase “Fecemi la Divina Potestate”, che nella Divina Commedia Dante pone sulla porta dell’Inferno: la torre e il suo mondo sono un’espressione divina e quindi aliena per gli uomini, ed infatti sono presentati come un personaggio a sé, una sorta di Iperuranio, un piano etereo dove le idee, rappresentate da creaturine informi dette Wara Wara, nascono e poi volano via per incarnarsi o nascere nel piano materiale. Altrettanto emblematico è il fatto che il potere mitopoietico del prozio provenga tecnicamente da un grande monolito, senziente ma insondabile, come a volte può esserlo l’ispirazione che ci muove nella nostra vita e che ci permette di costruirla e tenerla in equilibrio. Il prozio infatti ha il compito di tenere in equilibrio una piccola torre di pietre che permette al mondo fantastico di continuare ad esistere. Stanco del suo ruolo, lo stregone chiede al pro-nipote Mahito di prendere il suo posto, perché solo un suo discendente può farlo. Mahito tuttavia rifiuta, perché non è interessato al potere ma solo a salvare sua madre e sua zia, a dimostrazione del suo cuore puro. Nel vuoto di potere, il Re del Popolo dei Parrocchetti tenta maldestramente di tenere in piedi la torre, senza successo, causando così la fine del mondo fantastico e il ritorno di tutto e tutti alla normalità e alle rispettive dimensioni.

Il mondo fantastico è infatti popolato in larga parte da creature tutto sommato prigioniere (volutamente o meno) e poi trasformate o addirittura distorte. Vi è ad esempio l’airone, che svolge il ruolo di trickster malizioso e subdolo che guida il protagonista nel suo viaggio, rivelandosi infine di buon cuore. Vi sono poi Himi in versione adolescente, fatalmente capace di manipolare il fuoco che la ucciderà in età adulta, e la zia Natsuko, confinata nel letto di una sala parto protetta da serpenti di carta tanto fragili quanto feroci, forse una rappresentazione delle barriere che ci dividono gli uni dagli altri, tanto feroci quanti fragili. Altri personaggi interessanti sono il già citato Popolo dei Parrocchetti, mosso da una smania di controllo e da una fame atavica, e il Popolo dei Pellicani, il cui insasiabile appetito è invece una triste e dolente. Durante il film, Mahito incontra anche la versione ringiovanita di una delle domestiche che proteggono e si occupano di casa Maki e dei suoi abitanti, così come le anime dei morti, che viaggiano senza sosta intorno ad un’isola che richiama la Toteninsel di Arnold Böcklin.

L’isola dei morti (Die Toteninsel) di Arnold Böcklin, III versione, 1880-1886
L’isola dei morti di Hayao Miyazaki

Come finire?

Nel finale, tutto torna alla normalità, tanto che il racconto si interrompe quasi bruscamente, come a dire: il tempo delle storie è finito, ora per Mahito e la sua famiglia inizia il tempo della vita vera. Nel suo viaggio, Mahito ha infatti imparato ad accettare la morte della madre e l’affetto della zia, il che gli permette di guarire e vivere serenamente la propria esistenza, quasi in risposta al libro “E voi come vivrete?” che la madre gli aveva lasciato in eredità.

In conclusione, posso dire la visione de Il ragazzo e l’airone mi ha emozionato in maniera impulsiva e mi ha suscitato il desiderio di rivederlo ancora, perché siamo di fronte ad un film libero, complesso e personalissimo, che tuttavia riesce ad esprimersi e ad ispirare naturalmente, come il volo di un uccello.

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Classe ‘92. Laureato in/appassionato di: lingue, letterature e culture straniere. Giornalista pubblicista, divoratore di storie, scribacchino di pensieri propri e traduttore di idee altrui.

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