Negli ultimi anni, il cinema americano ha rivelato una tendenza di nostalgia verso il supporto che l’ha reso davvero grande nel mondo: la pellicola. Ci sono registi che fanno di tutto, dal pagare restauri a usarla come mezzo preferito con cui filmare la loro ultima opera, pur di contrastare la tendenza ormai avviata e quasi sicuramente incontrovertibile al cinema digitale.

Mentre Scorsese, Tarantino, P. T. Anderson e altri cercano dunque di ritrovare il glorioso presente del proprio cinema all’interno del periodo più florido per la loro industria, Jordan Peele fa un ulteriore passo avanti rispetto ai suoi colleghi: ritrovare l’essenza del suo cinema nelle vere origini del mezzo tecnico, presentando Muybridge e i suoi esperimenti al grande pubblico e attualizzandolo e romanzandolo, per inserirlo coerentemente all’interno della sua storia e nello specifico in quella che forse è la sequenza più riuscita del suo film.

Il cinema di Peele è da sempre innestato fortemente nella politica sociale degli Stai Uniti. Il primo film, Get Out, era quanto di più esplicito possibile, nella sua recriminazione verso una classe borghese dai toni quasi aristocratici che approfitta del corpo e delle menti dei giovani neri americani per consolidare il proprio potere economico, sociale e, nel film, addirittura corporale. Us è invece una interessante metafora su come il paese intero sia costruito su una rete di persone invisibili che ne costruiscono le fondamenta: lavoratori, schiavi moderni che non si incrociano mai con il mondo per bene che sussiste grazie a loro.

In tal senso, l’ultima fatica di Peele, Nope (ed è la prima volta che nomino il titolo del film a metà recensione perché credo che la filmografia del regista sia imprescindibile per contestualizzare quest’ultima opera) riprende i temi principali dei primi due film e li trasporta con grande arguzia all’interno del genere più rappresentativo della grande produzione filmica della Hollywood classica: il western. E così, le origini del cinema si fondono con le origini stesse del paese che ha dato i natali al regista e alla sua gente, coloro che abitano da sempre l’America, ma che per anni ne sono stati esclusi da qualsiasi tipo di vita politica e sociale. Sono loro, finalmente, i protagonisti della storia di Hollywood, che in fondo non è altro che la storia dell’America del ‘900.

La sfiducia di Peele verso le immagini digitali appare chiara già dalle prime scene: telecamere di sorveglianza sempre più costose vengono inserite sul tetto e sui i muri della casa di residenza dei protagonisti per registrare i fenomeni paranormali che i due sono benissimo in grado di distinguere con i propri occhi, ma che sembrano sfuggire totalmente alle camere digitali.

Non è un caso che a risolvere la situazione della cattura delle immagini venga chiamato un uomo di cinema “antico”, con la sua attrezzatura completamente meccanica e priva di qualsiasi campo elettromagnetico che verrebbe disturbato dall’entità che infesta le aride terre della California. Lo stesso personaggio viene poi contrapposto ad un reporter d TMZ, dotato di svariate videocamere 4K e presentato brevemente come principale antagonista del duo di fratelli protagonisti e del loro sogno di presentare al mondo la scoperta della presenza aliena sulla terra.

Molto interessante anche l’altro filo conduttore che attraversa il film, vale a dire il discorso sullo sfruttamento dell’uomo verso gli animali e la natura in generale, che nel film si ribella e distrugge, con cieca furia, quasi tutte le ambizioni antropocentriche che le si parano davanti.

In definitiva, Nope scorre abbastanza agevolmente nelle sue 2h 15min di durata, e sebbene proceda molto lentamente nelle fasi iniziali, gli inserti quasi onirici dei flashback dei personaggi secondari e la curiosità per quest’entità venuta dallo spazio profondo, terranno molto probabilmente gli spettatori incollati allo schermo, proprio come è successo a noi di Capri Comics.

Quella di Nope è quindi una lenta cavalcata (termine non casuale) verso un climax tra i più intensi del cinema americano degli ultimi anni.

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Gaetano Ricci
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200 anni al giorno. Non laureato, non studiato, poco letterato e quasi analfabeta, però mi piace leggere le cose e capire perché mi piacciono.

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