Dopo anni di tentativi maldestri, i Fantastici Quattro tornano al cinema con Fantastici Quattro: Gli Inizi, e stavolta il titolo è sincero: si riparte davvero dalle basi. Niente déjà vu, niente frasi fatte tipo “questa volta ci siamo per davvero”. Qui ci sono una regia attenta, un cast solido, e soprattutto una voglia nuova di raccontare la prima famiglia Marvel per quello che è: incasinata, intelligente e (finalmente) credibile.
Il regista Matt Shakman, molto attivo in televisione, opta per un taglio più umano, quasi intimo, lasciando respirare i personaggi e lasciando da parte i soliti fuochi d’artificio. Funziona? Quasi sempre.
Una squadra di volti giusti e momenti veri
In cima alla lista c’è Pedro Pascal, che si scrolla di dosso ogni patina da eroe e ci regala un Reed Richards fragile, stanco, ma mai cinico. È un uomo che prova a essere il più intelligente della stanza, mentre tutto intorno a lui crolla. E non ci riesce. E si vede. Accanto a lui c’è Vanessa Kirby, una Sue Storm intensa, costantemente divisa tra il ruolo di moglie, madre e scienziata. Il film le regala uno spazio centrale: è lei che tiene tutto in piedi, anche mentre le cose si sfaldano, alle prese con la gravidanza prima, la maternità poi. Joseph Quinn si diverte con Johnny Storm ma senza strafare, mentre Ebon Moss-Bachrach offre una Cosa dolorosamente umana, più tenera che minacciosa, e con più battute da film d’autore che da blockbuster.

Un film meno esplosivo, ma più concreto
Gli Inizi evita il classico ritmo “intro, botte, villain, botte più grandi” e sceglie di andare a piccoli passi. È un film che non grida per farsi notare, ma quando si apre, lo fa bene. Il punto di forza sono le relazioni. Non quelle urlate da trailer, ma quelle silenziose, che si costruiscono in uno sguardo, in una pausa, in un abbraccio trattenuto. Forse il cinecomic con meno punchlines e battute degli ultimi anni, senza però scadere nel serioso alla Snyder. Il cuore emotivo del film, però, è nascosto in una culla.
Franklin Richards: neonato, figlio, incognita
Nel film, Franklin è appena nato. Il bambino di Reed e Sue è una presenza piccola ma fondamentale. Non parla, non vola, non fa a pezzi la realtà con un battito di ciglia, ma potrebbe, perche chi conosce i fumetti sa che Franklin Richards non è un neonato qualunque. È un potenziale omega cosmico con un ciuccio in bocca. Galactus lo dice e, come un enorme tremotino, mette Reed e Sue in una condizione terribile. Il fulcro del film, insomma, che si sviluppa in maniera sussurrata: la scelta di definire cos’è la famiglia.

Silver Surfer: idea buona, resa da migliorare
L’idea di una Silver Surfer donna è interessante, e in parte funziona. Il personaggio è distante, gelido, inumano, come dovrebbe essere. Ma il problema è che la CGI non tiene il passo. La resa visiva è altalenante: alcune inquadrature sono potenti, altre sembrano prese da una cutscene poco rifinita. Il design ha un suo fascino minimal, ma manca quell’iconicità che dovrebbe avere un araldo cosmico. La performance mimica e vocale di Julia Garner regge, ma nel complesso il personaggio resta un passo indietro rispetto a tutto il resto del film. E noi di Capri Comics abbiamo un legame speciale con questo personaggio, in quanto uno dei nostri ospiti, Claudio Castellini, è senza dubbio tra le migliori matite che abbia mai rappresentato il surfista cosmico. Lo ammetto: un po’ avrei voluto rivedere nel Silver Surfer di questo film le sfumature epiche e tragiche di Castellini. Ma non si può avere tutto.

Galactus: ecco come si fa
Dove invece il film non sbaglia un colpo è Galactus. Finalmente. Niente nube cosmica, niente “forza” astratta. Galactus è presenza fisica, minaccia reale, potenza silenziosa. Lo vediamo a frammenti, in ombre, riflessi, nei suoi occhi viola. E poi, quando si rivela, è immenso. Una divinità tra le galassie, il male necessario, la fame dell’universo fatta figura. Il design è un omaggio diretto a Jack Kirby, con le sue geometrie esagerate e impossibili, eppure incredibilmente credibili. Ogni inquadratura che lo coinvolge ha peso, magnitudo, scala. Senza dubbio la parte più ispirata del film, e lo si sente. Si poteva magari gestirne meglio l’introspezione, ma forse si sarebbe spostata troppo l’attenzione dalla famiglia. Quindi ce lo godiamo così, almeno senza errori.

Easter egg, tagli amari e post credit: SPOILER
Il film non sbrodola, ma omaggia chi deve omaggiare: e quel qualcuno è sempre Jack Kirby. Lo stile cosmico, la composizione di certe inquadrature, il gusto visivo di certe scene sembrano usciti direttamente dalle sue matite. La terra 828 è inerente alla sua nascita, i fumetti nel film, le maschere dei bambini e tanto altro. La terra 828 è la sua terra. Viva il Re.
Un piccolo dolore per i fan più attenti: è stata tagliata la parte di John Malkovich, che doveva interpretare Il Fantasma Rosso, scienziato sovietico con scimmie potenziate, dove ahimé vediamo solo le scimmie.Peccato.
La scena post-titoli è muta, breve e densa. Siamo in una stanza tranquilla dove Franklin ha ora quattro anni ed è seduto sul divano, con sua madre Sue che gli legge una favola. Quando lei si alza per prendere un altro libro, qualcosa cambia, le luci e la scena assumono un colore verdastro. Tornando, la madre ritrova il figlio davanti a una figura inginocchiata. Non vediamo il volto dell’uomo. È avvolto in un mantello verde e nella mano tiene una maschera metallica. QUELLA maschera. E poi, senza dire una parola, Franklin tende la mano verso il suo volto. Come se lo conoscesse. Come se lo stesse aspettando. Doom non ha bisogno di presentazioni. E adesso, non è più un’ipotesi.
Brava Marvel: dopo vari passi falsi, forse siamo tornati in carreggiata, se non altro quella dell’hype.
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Classe '90. Farmacista per sbaglio, noto accumulatore di giochi da tavolo. Nasce e cresce a suon di Marvel e Disney e tanto basta...