Dai video e poi cortometraggi caotici e ipercinetici dell’era RackaRacka, passando poi per il terrore moderno e drammatico di Talk to me, i fratelli Danny e Michael Philippou approdano con Bring Her Back ad una prova di maturità nell’horror d’arte, dove introspezione e approfondimento psicologico sono le porte per un orrore empatico ed esistenziale. Prova superata con piccole riserve, per chi scrive. Ma proviamo ad andare un po’ più a fondo, non così tanto da fare spoiler, che ci riserveremo però per le conclusioni.

Parlami… e torna da me… ti prego  

Con Bring Her Back ci troviamo di fronte ad una psicotragedia familiare. Familiare in senso lato, cioè sia facile da riconoscere sia attinente alle vicissitudini di una famiglia, che, ricordiamolo, è il nucleo della società moderna ma per effetto di ciò è anche il teatro della sua disgregazione, in cui infatti tendono a consumarsi una larga percentuale dei delitti più atroci.

Il risultato è un kammerspiel che deprime forse più di quanto spaventa. Non che manchino momenti di spavento e raccapriccio pesantissimi, ma il tutto si condensa in una riflessione sul mancato superamento del lutto traumatico, con elementi sovrannaturali che potrebbero essere letti tanto come presenze reali quanto come proiezioni psichiche, dando così il la ad interpretazioni varie e stratificate. In tal senso, i registi lasciano (anche furbescamente) molti aspetti irrisolti, ma questi vuoti, che ben si sposano con l’aura dell’opera, potrebbero anche irritare alcuni spettatori. La miccia inoltre è molto lunga, e brucia perciò molto lentamente fino alla deflagrazione finale, generando un ritmo compassato, privo o quasi di jumpscare, che premia chi cerca un’esperienza più profonda e riflessiva ma che potrebbe non soddisfare gli amanti dell’horror più diretto e adrenalinico.

L’innesco del film è, come anticipato, familiarmente tragico: due fratellastri, di cui un ragazzo con problemi di rabbia, Andy, e una ragazza ipovedente, Piper, rimangono orfani e vengono accolti da una nuova madre adottiva, Laura, che li coinvolge, a loro insaputa, in un oscuro rituale occulto, in cui è coinvolto un ragazzino misterioso di nome Ollie. Col progredire del film, il confine tra realtà e incubo si fa sempre più sottile, fino ad un finale amaro, a tratti impietoso, che non perdoni al film, ma che rimane coerente col contesto e il cotesto.

I fratelli Philippou tornano a esplorare, come già in Talk to me, le profondità terrificanti del lutto, del trauma, dell’alienazione e del desiderio disperato di sollievo. E lo fanno ancora una volta volgendo lo sguardo verso “l’altro lato”, ignoto e pericoloso, ma che offre quantomeno ad una scintilla di luce nel buio della disperazione. Come in Talk to me, anche in Bring Her Back esistono una soglia da superare, un tramite verso il paranormale e uno sconfinare frenetico alla ricerca di risposte, contatto, consolazione apparentemente impossibili da ritrovare sulla Terra. E anche i titoli dei due film (in italiano Parlami e Torna da me), si connettono: sono due invocazioni, due preghiere, due suppliche, due ordini forse, carichi di solitudine, che esprimono il bisogno primario di far cessare il dolore e ristabilire un legame con ciò che è stato perduto, anche a costo di attraversare l’irreversibile e macchiarsi di colpe mostruose. 

Regia, montaggio, fotografia, musiche, effetti e interpretazioni sono tutti molto solidi ed evocativi, permettendo alla storia e ai temi la possibilità di dipanarsi organicamente, senza dover ricorrere ai consueti spiegoni in cui spesso cadono registi o sceneggiatori di genere meno dotati, nel timore che lo spettatore non colga i sottotesti o le chiavi interpretative dell’opera. Qui, invece, è la messa in scena stessa a parlare con le immagini, i suoni, le atmosfere e i silenzi, lasciando spazio alla riflessione e alla partecipazione attiva dello spettatore.

Non mancano alcune ingenuità tipiche dell’horror più convenzionale, e in certi momenti la violenza sembra gridare in maniera troppo sguaiata rispetto al resto del film, il che può essere un pregio o un difetto, a seconda del vostro gusto. 

In ogni caso, Bring Her Back ti si pianta in testa ed è un passo avanti rispetto a Talk to me, se non altro in termini di ambizione, consapevolezza e personalità. I Philippou stanno chiaramente costruendo un percorso autoriale e, se la traiettoria resterà dritta, è facile pensare che tra i loro prossimi film potrebbe annidarsi un vero capolavoro.

Il vuoto incolmabile 

A questo punto, è il momento di scavare un po’ più a fondo nella carne viva del film. Lo faremo addentrandoci in alcuni dettagli chiave, legati a doppio filo allo sviluppo dei personaggi. Per cui, da qui in poi, spoiler alert: se non avete ancora visto Bring Her Back vi consigliamo di interrompere qui la lettura e tornare dopo la visione, per confrontarvi con la nostra analisi più approfondita.

Il film presenta una manciata di personaggi, essenziali ma ben tratteggiati. Tra tutti spiccano Laura e Ollie, interpretati rispettivamente da Sally Hawkins e Jonah Wren Phillips, che riescono a rubare la scena ai due giovani protagonisti: Piper (Sora Wong) e Andy (Billy Barratt).

Laura è una madre, psicologicamente ed emotivamente sventrata dalla perdita improvvisa della figlia Cathy, che sceglie di votarsi all’occulto pur di riportarla indietro. Sally Hawkins le conferisce una complessità notevole: manipolativa, implacabile e spaventosa, ma al tempo stesso terribilmente umana. La si odia e la si comprende, la si condanna e la si compatisce perché è una donna incapace di elaborare il lutto (il cane imbalsamato ne è un segnale immediato) e disposta a tutto pur di aggrapparsi ad una parvenza di speranza. E nel finale, dopo essersi macchiata delle azioni più atroci, ritorna ad essere una madre vera: non riesce a sacrificare Piper e sceglie invece, finalmente, di accettare il dolore e stringersi in un ultimo abbraccio con ciò che resta della figlia. In questa chiusura disperata e imperfetta, amore e orrore si fondono in un’ultima sublimazione: Eros e Thanatos che si abbracciano e si annullano nel punto più profondo dell’abisso. 

Ollie, o Connor, è un personaggio altrettanto tragico, un bambino incolpevole, rapito e trasformato in tramite per un’entità (angelo o demone, a seconda della lettura) in grado di traghettare anime tra i corpi. Ollie è la personificazione del trauma imposto, dell’identità smarrita, della fame emotiva senza fine, del vuoto che non può essere riempito. La disgregazione fisica che lo accompagna, unita all’interpretazione muta e alienata di Phillips, fanno di lui il vero nucleo palesemente orrorifico del film. Eppure, dopo tanto tribolare, la sua parabola si chiude positivamente, quando la sua vera coscienza sepolta, quella di Connor, si riconosce nello specchio del volantino che denuncia la sua scomparsa, spingendo così via l’entità che lo abita. Una liberazione che non è solo un esorcismo: è un bellissimo atto di forza interiore, un edificante gesto di auto-riconoscimento che permette di riappropriarsi di sé e di ritornare alla propria identità. 

Andy è un altro riflesso del lutto irrisolto, stavolta però è quello di un figlio nei confronti di un padre problematico. La rabbia che lo abita, silenziosa e corrosiva al pari dell’entità che vive in Ollie/Connor, nasce infatti in seno al rapporto irrisolto col genitore, marchiato dalla vergogna dell’invidia verso la sorella, dal risentimento di un affetto paterno sbilanciato, e soprattutto dalle violenze subite dal padre stesso. Eppure Andy non si arrende a quella rabbia. È un personaggio che sceglie consapevolmente di non essere come il padre, e neppure come la peggiore versione di sé stesso. Lotta contro il male che avverte dentro di sé, e lo fa per amore di Piper, che diventa per lui ancora una volta una ragione per scegliere il bene. La sua fine, improvvisa e crudele, è un duro colpo anche per lo spettatore, che iniziava ad empatizzare con lui. Ma è una fine coerente col filo rosso che attraversa il film: imparare a convivere con la morte, a riconoscerla come passaggio, come un volo d’aereo verso un ignoto che non deve distruggerci. Buona anche la prova di Billy Barratt, che sa oscillare tra rabbia e tenerezza con notevole intensità.

E poi c’è Piper: vittima sacrificale, simulacro per la reincarnazione, elemento fragile della storia. Tutti ruoli che le vengono proiettati addosso, ma che lei rifiuta. In lei vivono inconsapevolezza e purezza, ma il film non la riduce mai a uno strumento narrativo. Anzi, al contrario, Piper compie un proprio percorso intimo di maturazione: non è ciò che Laura vuole che sia, e l’amore che la lega ad Andy le dona forza e coscienza. Anche nella perdita più dolorosa, il suo arco si compie nella piena accettazione della fine, come Andy le aveva insegnato. I registi restituiscono con delicatezza anche la sua disabilità: attraverso inquadrature tattili, sfocature visive e un uso accorto del suono, lo spettatore è invitato a condividere da vicino il modo in cui Piper percepisce il mondo. Nonostante la poca esperienza attoriale, ma con l’esperienza di una reale disabilità visiva, Sora Wong offre una performance convincente, che comunica molto con la fisicità, la mimica e la gestualità, senza mai cadere nello stereotipo.

Il quartetto di personaggi si trova a reagire all’irruzione del paranormale, che però, come anticipato, può anche essere letto, attraverso una lente razionale, come un’allucinazione condivisa, generata da menti segnate dal trauma. Il rituale stesso di reincarnazione, che Laura segue come una ricetta da un libro, somiglia più a uno snuff movie casalingo che a un atto magico codificato. Evocare una sorta di psicopompo e fargli possedere qualcuno, successivamente conservare un cadavere e replicare le condizioni della sua morte con un’altra vittima, per poi far divorare al posseduto faccia ed occhi del cadavere originale e infine far vomitare i rimasugli nel cadavere secondario, che assumerebbe così l’identità di quello primario. Tutto molto confuso e inutilmente efferato e crudele. L’entità che infesta Ollie potrebbe allora essere una proiezione psicosomatica, un coagulo di emozioni negative che esplode con la violenza del delirio. 

Simbolicamente pregnante è anche l’attenzione che il film pone sull’acqua quale viatico di nascita, rinascita, mistificazione e morte. Parliamo infatti dell’acqua della doccia, che mascherava le violenze inflitte ad Andy dal padre, che poi è la stessa acqua in cui il genitore muore, chiudendo così un ciclo; ma c’è anche l’acqua della piscina dove Cathy ha perso la vita e dove quindi è detto che debba rinascere.

Conclusioni

Bring Her Back è un film riuscito, non però privo di sbavature. Ad esempio, dal punto di vista della verosimiglianza, è difficile credere che Laura, chiaramente instabile dopo la tragica morte della figlia, potesse essere dichiarata idonea all’affido. È un dettaglio funzionale per la trama, ma che rischia di rompere la sospensione dell’incredulità. E ancora, alcune scene gore, per quanto ben realizzate e coerenti col dramma, hanno una mano un po’ troppo pesante e sembrano strizzare troppo l’occhio allo shock value. 

Ciò detto, l’audacia e la personalità dei fratelli Philippou trovano qui una bella conferma e anche una intrigante evoluzione dopo Talk to me.

Resto perciò in trepidante attesa al varco della loro prossima opera. 

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Classe ‘92. Laureato in/appassionato di: lingue, letterature e culture straniere. Giornalista pubblicista, divoratore di storie, scribacchino di pensieri propri e traduttore di idee altrui.

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